La Mediazione scolastica fra pari (Parte I) | mediazionebrescia.it
La Mediazione scolastica fra pari. Dal 2000 lavoriamo affinché più scuole possibili attingano ai progetti e creino internamente spazi di mediazione autonomi
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La Mediazione Scolastica fra pari per ascoltare il conflitto e trasformare la relazione (Parte I)

La Mediazione Scolastica fra pari per ascoltare il conflitto e trasformare la relazione (Parte I)

In questo lavoro, seppur in modo breve, descriveremo alcuni aspetti che riguardano i progetti di mediazione scolastica fra pari, ossia una mediazione in cui alcuni alunni formati svolgono il ruolo di mediatori all’interno della loro scuola. Lo spazio di mediazione è disponibile in orario scolastico e gli alunni vi accedono attraverso un’iscrizione libera, pur se talvolta suggerita dagli insegnanti o dai compagni di classe.

La mediazione entra nella scuola come un progetto sostenuto da formatori esterni, ma l’obiettivo è che si trasformi in un servizio autonomo e posto nelle mani dei docenti e del personale scolastico. La finalità del progetto descritto sta nel radicare la cultura della mediazione nelle scuole, affinché esse organizzino e prevedano uno spazio fisico nel quale gli alunni, durante l’orario scolastico, possano prendersi cura della conflittualità che caratterizza naturalmente ogni convivenza, peraltro, nel caso della scuola, forzata.

Il progetto si struttura secondo passaggi graduali per consentire ai protagonisti della scuola di apprendere l’idea che la conflittualità fa parte della relazione e che imparare a gestirla significa saper utilizzare le sue potenzialità educative.

Il conflitto, com’è ormai noto, contiene in sé elementi di pericolo e di risorsa per le persone e per le comunità: costituisce una risorsa quando lo si adopera per conoscere sé, la relazione con l’Altro e lo si utilizza per trasformare la relazione stessa, qual’ora le persone ne sentissero il bisogno. Il conflitto chiede alla relazione di cambiare, di modificarsi ed è l’opposizione a tale cambiamento a condurre verso il pericolo. Il conflitto minaccia la rottura della relazione, ma è al contempo lo strumento per riorganizzarla. La mediazione interviene come elemento che facilita tale processo di riorganizzazione, offrendo uno spazio di comprensione reciproca.

Il progetto, pertanto, assume in sé una finalità piscoeducativa ed agisce in ottica preventiva rispetto alla forma degenerata del conflitto, ossia la violenza.

L’Istituto di mediazione familiare e sociale da oltre vent’anni lavoro sul campo e ha costruito un modello di intervento, meglio descritto nella seconda parte del saggio, che segue alcune tappe precise, pur negoziando sempre con le realtà scolastiche modalità e tempi di realizzazione[1]. Le tappe principali vedono come protagonisti sia gli insegnanti, sia gli alunni coinvolti in percorsi di formazione e supervisione. Nella prima parte del progetto i formatori lavorano con i gruppi classe e con gli insegnanti e nella seconda parte formano gli alunni mediatori e avviano con loro lo spazio di mediazione. Nella terza e ultima parte gli alunni mediatori e gli insegnanti referenti, sono seguiti attraverso incontri di supervisione.

In questo testo ci soffermeremo, in particolare, sui principi fondamentali che descriveremo prima ancora di descrivere il progetto in sé.

 

  1. Le ragioni di un intervento precoce, ma non precocizzato, preventivo della violenza

 

L’atto educativo struttura mappe mentali, ossia psichiche, che vengono riattivate da adulti nei diversi contesti di vita; ciò vale per qualsiasi situazione, compresa quella conflittuale. Imparare a gestire positivamente il conflitto nella fase di sviluppo della mente significa porre le basi per poter utilizzare anche da adulti l’aspetto di risorsa contenuto nel litigio, anziché esacerbare gli aspetti di rischio.

Il comportamento è appreso dapprima con l’esempio e successivamente anche attraverso la comprensione guidata; fino al termine dello sviluppo del pensiero operatorio-concreto il bambino (8/9 anni) impara il comportamento imitando gli altri e spiegare una successione di azioni con la pretesa che egli impari a gestire la situazione conflittuale attraverso processi razionali è impresa assai difficile. A partire dal primo sviluppo del pensiero operatorio-astratto, invece, la mente del bambino struttura due condizioni base per l’apprendimento di forme positive di gestione del conflitto: il pensiero operatorio-astratto e il conseguente superamento della dicotomia bene/male con la quale il bambino legge la realtà.

Per queste ragioni è auspicabile che il bambino sia accompagnato a gestire le situazioni conflittuali, secondo passaggi che sappiano distinguere gli aspetti razionali e quelli emotivi, nella direzione della consapevolezza di sé, distinto dagli altri a partire dagli otto/nove anni. Egli, infatti, può riconoscere le emozioni proprie ed altrui e correlare ad essi i comportamenti, superando lentamente anche la logica dicotomica del bene/male (buoni/cattivi), attraverso la quale la mente, fino a quel momento, tende a leggere la realtà.

Siamo tutti potenzialmente a rischio di fronte al conflitto, ossia rischiamo di perdere l’occasione che esso ci offre di capire come siamo noi e com’è la nostra relazione con l’Altro. Il rischio, infatti, non sta solo nel sentire emozioni faticose e dolorose o nella possibilità che esso degeneri in violenza; il pericolo sta soprattutto nella convinzione che dalla controversia sia utile uscirne vincenti (vs i perdenti), secondo la logica dicotomica tipica dell’infanzia (bene/male, ragione/torto), che divide erroneamente la società in buoni/cattivi, decretando di fatto un aumento del senso d’insicurezza sociale ed esacerbando il conflitto, anziché affrontarlo.

Tuttavia, pur sapendo che la dicotomia ragione/torto oggi non riesce più (o forse non ci è mai riuscita!) nell’intento di soddisfare il bisogno sociale e individuale di sicurezza, alla politica e alla giustizia si continua a chiedere di risolvere la questione sulla base dei binomi colpa/ragione e punizione/assoluzione (Eusebi, 1990; Forti, 2004; Marchetti, Mazzucato, 2006), che, usando le parole di Arundhati Roy (2002) “semplificano ciò che non va semplificato e rendono complesso ciò che non va reso complesso”.

Imparare ad affrontare la conflittualità significa superare tale dicotomia per dare spazio ad un pensiero più complesso, che sa considerare l’esistenza di più punti di vista, e implica comprendere il legame fra emozioni e azioni proprie ed altrui. Ciò è possibile quando le strutture mentali lo consentono se è accompagnato, seguito e supportato, così com’è per gli altri suoi compiti di sviluppo. Per questa ragione i progetti di mediazione scolastica fra pari, di seguito descritti, sono proposti nelle scuole primarie e secondarie, a partire dal nono anno di età e prevedono dapprima una formazione specifica, dedicata agli insegnanti e genitori e poi la formazione degli alunni.

 

  1. Costruire la cornice e poi il contenuto

 

La formazione degli adulti è volta principalmente a definire una cornice teorico-fondativa circa l’idea di conflitto, affinché la mediazione possa trovare il terreno fertile di cui necessita per entrare nella cultura scolastica.

Ogni percorso evolutivo necessita di una cornice di senso che lo contiene. Non è possibile proporre una formazione senza aver prima chiarito le ragioni per le quali si propone una certa attività, piuttosto che un’altra. Seguendo questo principio, l’Istituto di mediazione, pur non trascurando la trasmissione di contenuti, propone una formazione che opera attraverso il processo di lavoro: proponiamo un lavoro sul conflitto che gli adulti hanno col conflitto, ossia sulla difficoltà nel percepirlo come risorsa e opportunità, più che sugli errori che fanno quando lo trattano solo come pericolo e procediamo passo dopo passo, permettendo ai formandi di costruire agganci personali (zzati) in cui sperimentano di aver fatto proprie nuove acquisizioni.

Siamo dell’idea, infatti, che gli apprendimenti a) avvengano all’interno di situazioni positive e non tanto in situazioni di correzione puntuale o di sottolineature circa l’inefficacia degli interventi e b) avvengano secondo agganci a ciò che è già noto. Tale approccio permette di entrare nei meccanismi del fare automatici e modifica il punto di vista del formando secondo, tuttavia, un lento processo di acquisizione di piccoli apprendimenti che si legano ai precedenti e che hanno bisogno di conferme, finché il nuovo modus ha modificato il vecchio.

Per quanto attiene al nostro tema, è chiaro che per gli insegnanti affidare il conflitto fra pari ai pari, concepirlo come risorsa, assicurargli uno spazio di elaborazione e rimanere ai margini della relazione fra pari, evitando la pretesa di gestirla, sono possibilità lontane dal pensiero diffuso; solitamente gli insegnati si vivono come protagonisti nella ricerca della soluzione al conflitto, secondo un mandato preciso del ruolo stesso che ricoprono. La mediazione fra pari potrà avere un suo spazio nella misura in cui gli adulti faranno un passo indietro di fronte al litigio fra gli alunni, lasciando che essi costruiscano competenze nella trasformazione dello scontro che li oppone. È importante che gli adulti forniscano una cornice chiara nella quale il litigio è sentito come occasione di confronto e non come sbaglio o problema da risolvere.

 

2.1. La cornice: formazione degli adulti e cultura della mediazione

 

Formare alla logica della mediazione significa sviluppare e sostenere la parte razionale dell’essere umano, capace di distinguere l’azione dall’emozione. Nel conflitto le emozioni e i sentimenti sono pervasivi e alla logica razionale viene lasciato uno spazio esiguo: le reazioni che l’essere umano mette in campo di fronte al conflitto sono per lo più emotive, finalizzate a difendere lo spazio invaso dall’altro e a sopravvivere nella lotta fra vincente e perdente.

Formare a introdurre razionalità e intenti chiari alla propria azione nella dinamica conflittuale, pertanto, non è certo semplice e scontato. L’indirizzo che insegna spiegando è spesso fallimentare: agire sull’emotività, utilizzando la pura razionalità non consente alla mente di interiorizzare processi contrari alla spinta emotiva; pare più utile, invece, far sperimentare esperienze positive in cui il formando sente e percepisce il modificarsi della sua emotività di fronte al conflitto e ne percepisce i vantaggi.

Ogni persona ha imparato nel tempo a gestire la propria conflittualità attraverso le sue esperienze di vita, non esistono discipline che lo insegnano, si tratta di modus interiorizzati attraverso l’esperienza. Questo vale chiaramente anche per gli insegnanti i quali, tuttavia, ricoprono anche un ruolo che indica loro alcune funzioni da assumere di fronte al conflitto fra pari. Evitare il conflitto, condurre verso la pacificazione, occuparsi della relazione insegnante/alunno prima che della relazione fra pari, identificare il colpevole col fine di intervenire, sono fra le funzioni più complesse da decostruire. Ne sono una dimostrazione i dati di una ricerca condotta dall’Istituto, che monitora il suo lavoro attraverso questionari e interviste somministrati agli insegnanti e agli alunni, coinvolti nei progetti[2].

Gli insegnanti alla domanda Pensi all’ultimo conflitto cui ha assistito e indichi tre azioni che ha fatto, rispondono perlopiù collocandosi nell’area dell’azione che regola il conflitto e non lo utilizza a scopo educativo. Più della metà degli insegnanti, ossia il 63,3%, percepisce la conflittualità in classe come elemento di disturbo del percorso didattico. Di fronte al conflitto il 23% agisce secondo la logica della risoluzione (chiusura), il 45% gestisce il conflitto secondo la logica torto/ragione (chi ha iniziato ha colpa) e il 26% agisce cercando di aiutare i pari a trasformare la loro relazione. Inoltre, di fronte al conflitto gli insegnanti, potendo esprimere due emozioni prevalenti, dichiarano di provare emozioni perlopiù difficili da gestire: rabbia, dolore, rischio, fatica, paura per il 71% e solo 3 insegnanti su 10 sente il conflitto come occasione di apprendimento. Anche nelle risposte aperte alla domanda: “Cosa prova osservando i suoi alunni in conflitto?” essi rispondono:

 

“Il conflitto mi fa stare male; quando li vedo litigare mi viene un nodo allo stomaco” (45a)

“Nella mia classe è un continuo litigare; spesso per punizione li faccio stare seduti durante la ricreazione, ma mi pare non serva a molto” (47a)

“I miei alunni sono bravi: è una buona classe che mi invidiano. Non discutono, non litigano. Sono bravi!” (35a)

Le emozioni (difficili) e i principi morali (bene/male) conducono verso interventi per lo più repressivi della conflittualità, poco aperti alla possibilità di utilizzare le potenzialità educative in essa contenute. Secondo Bilotta (2006) esiste un indirizzo culturale che conduce gli adulti a reagire in senso repressivo di fronte al litigio; esso riguarda istanze morali radicate e utilizzate per stabilire se l’agire è conforme oppure no ai valori condivisi e per giudicare l’essere umano. La moralità, pur essendo destinata a cambiare nel tempo (ne sono un esempio modus un tempo accettati e ora chiaramente indifendibili), pare aver tracciato nella mente solchi che confinano il conflitto entro il territorio del male, anziché concepirlo come esperienza fondamentale per la crescita (Marchetti: 2017).

L’insegnante di fronte al conflitto fra pari interviene perlopiù attraverso azioni direttive, gestendo dall’esterno la situazione e coinvolgendo eventualmente i protagonisti del litigio solo dopo aver posto ordine all’interazione[3].

Durante la formazione, alla richiesta di descrivere ciò che sono soliti fare di fronte ad un conflitto, gli insegnanti rispondono:

“Io faccio così: quando vedo che stanno iniziando li divido, uno di qua e l’altro di là. Poi li metto uno di fronte all’altro e chiedo chi ha iniziato, cosa è successo, perché… così…” (50a)

“Io ho un modo che funziona: se solo li vedo iniziare intervengo e dico che a scuola non si litiga, che a scuola tutti devono andare d’accordo; si placano… almeno per un pò” (48a).

Formare gli insegnanti, pertanto, significa dapprima decostruire processi di pensiero automatici e cristallizzati e costruire alternative valide e rassicuranti: possiamo, infatti, chiedere di abbandonare un’abitudine, se sappiamo proporre una possibilità almeno altrettanto soddisfacente. In altre parole, possiamo chiedere all’insegnante di sospendere il giudizio di fronte a due alunni che litigano, di provare ad evitare l’interveto repressivo e, di contro, sollecitarli a rivolgersi allo spazio di mediazione, se l’insegnante percepisce e sperimenta l’efficacia del suo intervento.

Nella formazione non si richiede una fede, pur avendo bisogno di un atteggiamento di fiducia. Nella formazione si propongono esperienze diverse da quelle cui i formandi sono abituati, col fine di far sperimentare emozioni positive. La fede contiene in sé un’aspettativa ‘salvifica’, che lede alla mediazione, mentre la fiducia procede a piccoli passi e prevede che vi siano momenti critici e complessi da affrontare. La formazione degli insegnanti procede appunto a piccoli passi e riguarda in particolare due aspetti a nostro avviso salienti:

  1. la relazione fra il modo di leggere (concepire) il conflitto e i modi (modus) di reagire ad esso;
  2. la confusione fra conflitto, violenza e le norme morali attorno;
  3. il conflitto a scuola: le modalità per affrontarlo contano più del risultato.

 

2.2 Il contenuto della formazione: (a) il rapporto fra come si legge e come si reagisce al conflitto, (b) conflitto, violenza e norme morali attorno

 

2.2.a Il rapporto fra come si legge il conflitto e come si reagisce ad esso

Gli studi sociologici suggeriscono l’esistenza di una chiara relazione fra l’idea di società e la lettura che si dà del conflitto; ossia, ad ogni modello di lettura della società corrisponde un’idea di conflitto, più o meno funzionale alla società stessa, più o meno naturale all’interno della compagine sociale, più o meno legittimo (fra i molti, Cesareo: 1993).

L’esperienza sul campo ha condotto a ipotizzare, inoltre, che esista una relazione fra le idee di conflitto e i modi attraverso cui le persone lo affrontano, presupponendo quindi che vi sia una relazione, fra come concepisco la società – che idea ho del conflitto – come lo affronto.

Esistono due grandi modelli di confronto relativamente alla natura dell’essere umano e pertanto della società che egli crea: da un lato, coloro che sostengono la natura buona dell’uomo e, dall’altro, coloro che ritengono che l’uomo sia egoista; da un lato, coloro che guardano alla società come ad una forma necessariamente armonica e dall’altro come luogo di scontro e conflitto.

Aderire all’una o all’altra posizione ha condotto verso l’illusione di possedere la chiave di lettura della società, attraverso visioni unilaterali e poco adatte, invero, alla reale comprensione. Se vogliamo dare una qualche legittimità agli studi di psicodinamica dal Novecento a oggi, sappiamo che l’essere umano è costituito da un insieme di spinte opposte che gli permettono di rimanere in equilibrio proprio perché opposte: il lavoro complesso del diventare grandi, infatti, è quello di imparare a gestire tali forze dinamiche contraddittorie, cosicché da riuscire a costruire un sé integrato, non scisso, e il più possibile capace di continuare a bilanciare le forze interne. Certo è che “le teorie integrazioniste si sono proposte in termini culturalmente aggressivi accattivanti, al punto da riuscire a piegare ai propri fini proposte scientifiche nate in climi e contesti socio-culturali e politici assai differenti rispetto a quelli in cui tali proposte nascevano” (Bilotta, 2016: 25). L’idea di fondo è che la prevaricazione della teoria integrazionista di lettura dei fenomeni sociali abbia relegato lo studio del conflitto agli ambiti della devianza, utile e funzionale solo se ricondotto all’ordine sociale di riferimento e non certo per il suo valore umanamente intrinseco. Con ciò, lo studio del conflitto per molto tempo rimase al punto in cui lo lasciò Simmel e la teoria che ne conseguì fu contrapposta alla teoria integrazionista, anziché vederla in continuità con essa. Peraltro, la teoria secondo la quale il conflitto porta necessariamente al cambiamento sociale, in qualche modo, soverchiò quella di altri autori, come appunto Simmel o più tardi Coser (1956), i quali sostengono che il conflitto può essere alla base dell’ordine sociale “come se intendesse mostrare l’esistenza di un bisogno funzionale di conflitto necessario al mantenimento della società” (Ibi: 28). Forse per la contrapposizione con la teoria integrazionista, anziché guardando alla possibilità che le due fossero compresenti, forse la paura che il conflitto fosse scambiato per il fine, anziché essere concepito come mezzo, di fatto esso è stato relegato ad elemento negativo cui porre attenzione col solo fine di ridurlo in quanto elemento di disintegrazione sociale.

Se, da un lato, fa specie che il mondo educativo ponga in correlazione il conflitto con istanze sociali e individuali negative (vedremo anche moralmente non accettabili) – rispondendo ad esso attraverso azioni finalizzate prevalentemente a fermarlo e reprimerlo – d’altro canto, la sola analisi degli studi sociali pone in tutta evidenza la difficoltà di assumere prospettive capaci di comprendere gli aspetti positive della dinamica conflittuale.

L’insegnante abituato ad agire di fronte al conflitto secondo meccanismi pressoché automatici ha bisogno di comprendere le radici profonde dei suoi automatismi sia per uscire dalla logica dell’errore/colpa, sia per poter fondare le sue nuove competenze. Le riflessioni sul proprio agire supportate da cornici teoriche aiutano e supportano il cambiamento, che tanto auspichiamo circa il modo di affrontare la conflittualità fra pari a scuola.

Nella formazione si propone agli insegnanti di riflettere sullo schema qui sotto riportato.

 

Materiale formazione I.1

 

Risolvere, gestire o trasformare diventano le tre categorie cui riferire le azioni degli insegnanti di fronte al confitto fra pari e, in modo particolare, i formandi riescono a trovare le ragioni delle loro azioni entro le maglie della lettura che danno della conflittualità. Non è possibile modificare l’approccio al conflitto, così come non sarà possibile suggerire ai propri alunni di rivolgersi allo spazio di mediazione, finché il giudizio su di esso rimarca i sui aspetti di pericolo, trascurando quelli di risorsa, finché la compagine sociale reputa il conflitto come minaccia all’ordine precostituito, anziché occasione per ridefinire un nuovo ordine.

Evidentemente non bastano gli studi psicopedagogici a sostenere che il conflitto è luogo di apprendimento; è forse necessario lavorare sull’idea di società come luogo di scambio fra individui che interagiscono, attribuendo un senso alle loro interazioni, non immediatamente comprensibile. Osservare un’interazione, anche quella conflittuale, significa vedere qualcosa, ma non tutto dello scambio; il significato di quello scambio è nella mente dei protagonisti che possono comprendersi, confrontandosi, e che possono utilizzare lo scambio per decidere se modificare oppure no la loro relazione. Per agire in questa direzione, è necessario, tuttavia, guardare all’interazione sociale come costrutto relazionale la cui parte visibile è definita dai più come posizione, cui sottostanno interessi e bisogni, spesso profondi e importanti.

 

Materiale formazione I.2

 

Per ogni posizione espressa, esistono degli interessi cui essa mira e dei bisogni profondi, che determinano gli interessi stessi. Il conflitto è quindi espresso attraverso una posizione, ma è compreso solo attraverso il racconto reciproco degli interessi e talvolta dei bisogni. Nella formazione degli insegnanti proponiamo, pertanto, un punto di vista diverso del conflitto, a partire da un’idea di società costituita da legami sociali il cui senso è noto pressoché alle persone che li costituiscono, più che a coloro che osservano esternamente lo scambio; con ciò la dinamica conflittuale è superabile dai protagonisti del conflitto più che da osservatori esterni, il cui intervento è indispensabile quando il confronto non è possibile, ossia quando le interazioni hanno l’obiettivo di annullare/eliminare l’altro, ossia quando siamo di fronte alla violenza.

 

2.2.b La confusione fra conflitto, violenza e norme morali attorno

 

Gli adulti confondono spesso il conflitto con la violenza e raramente definiscono il primo come tipico elemento di una dinamica relazionale.

Invero, la relazione interpersonale contiene per sua natura fasi di conflittualità più o meno elevate e la dinamica del conflitto segue un suo tipico percorso da una fase di latenza fino al rilancio/rottura della relazione, passando da una fase apicale, ossia il momento della sua massima esplosione (Arielli – Scotto, 2002).

 

Materiale formazione I.4

 

Siamo soliti confondere il conflitto con la violenza, innanzitutto poiché poniamo attenzione a esso quando è in fase apicale, ossia dal punto di vista fenomenico più evidente. Nella fase apicale le persone mostrano la loro contrapposizione ed è facile confonderla con la violenza. Conflitto e violenza, tuttavia, hanno caratteristiche diverse e se è vero che un conflitto non curato può degenerare in violenza, è altrettanto vero che quest’ultima presuppone l’intenzione di eliminare l’altro o la relazione con l’altro, condizione che si realizza raramente fino alla preadolescenza, quando lo sviluppo mentale raggiunge il pensiero ipotetico deduttivo (attorno ai dodici-tredici anni). K. Lewin (1965) ha definito il conflitto come una situazione che si determina ogni volta che su un individuo agiscono contemporaneamente due forze psichiche di intensità più o meno uguale, ma di opposta direzione. Esso si verifica ogni volta che ricorrono attività incompatibili, ossia quando le azioni svolte da una persona per raggiungere i propri fini bloccano o interferiscono con il tentativo di un’altra di raggiungere i propri obiettivi. Si tratta di una situazione relazionale, latente o visibile, che può manifestarsi in azioni (a) divergenti, (b) concorrenti, (c) ostacolanti, ma non di (d) annientamento dell’altro. Trattasi in quest’ultimo caso di violenza. Il conflitto è una forma relazionale caratterizzata da posizioni diverse, che scaturiscono da interessi e bisogni personali e segnala la necessità di un confronto fra le persone. Seguendo la riflessione di J.P. Bonafè Schmitt (2000), si ritiene, infatti, che il conflitto, sia una situazione in cui le persone esprimono una divergenza di posizioni cui sottostanno interessi e bisogni che le originano e che ne definiscono il grado di amovibilità. Le persone che giocano il loro conflitto sono più o meno disponibili a guardare i loro interessi e bisogni con l’altro, sulla base della loro dinamica relazionale. In altre parole, vi sono le persone in conflitto e c’è la loro relazione, ossia un terzo che sta fra loro e che va oltre le loro singole soggettività.[4] L’esistenza della relazione presuppone che i due soggetti in conflitto a) sentano l’altro come distinto da sé b) non desiderano l’eliminazione dell’altro.

In caso contrario, ossia a fronte di una mancata distinzione fra sé e l’altro o di un’intenzione di eliminarlo è violenza[5]. Se il conflitto fa parte della relazione, la violenza no; se nel caso di conflitto è possibile utilizzare lo strumento della mediazione, nel caso della violenza è necessario prima agire sul singolo e valutare la possibilità che si possa poi lavorare sulla relazione.

Il conflitto può essere una chance, la violenza è pericolo e le persone hanno dapprima necessità di porsi al sicuro.

Si presume che la mancata distinzione fra le due situazioni o l’idea che il primo sfoci sempre nella seconda sia un altro importate motivo per il quale gli ambienti educativi relegano la conflittualità nell’area delle situazioni da evitare o da risolvere il più presto possibile, trascurandone il potenziale psicoeducativo.

Tuttavia c’è anche chi sostiene, come Bilotta (2016), che l’origine dell’atteggiamento di chiusura nei confronti del conflitto sia legato a una più che radicata norma morale. Il monito “Smetti di litigare e fai la pace” pare aver radici complesse, scrive B.M. Bilotta (2016: 187), “di certo correlabili con quelle norme morali che dovrebbero tracciare la strada verso l’umanizzazione: fa il bene ed evita il male, non danneggiare l’altro, dà a ciascuno ciò che gli spetta, “ama come vuoi essere amato”. La moralità, che tende verso l’umanità è destinata, tuttavia, a cambiare. Nel momento in cui si comprendono aspetti nuovi dell’umanità stessa e vi è lo spazio per porli in tutta la loro evidenza, la morale può modificarsi, finanche a ribaltare le sue posizioni. Si ricordi che un tempo era moralmente buono cibarsi del corpo del nemico ucciso, era ritenuta perfetta la legge del taglione, legittima la schiavitù, accettato l’infanticidio, in presenza di malformazioni e potremmo di certo continuare la serie di modus un tempo moralmente accettati, ora chiaramente indifendibili.

Rimanendo in tale prospettiva, che identifica la morale (a) come solco attraverso il quale l’uomo dovrebbe avvicinarsi alla sua umanità, (b) che cambia nel tempo, ci si chiede se è possibile apportare una modifica a quella morale che confina il conflitto entro il territorio del male e lo esilia come agire sbagliato, negativo o perlomeno sconveniente, quando le scienze sociali hanno compreso che il conflitto fa parte della relazione umana ed è un’opportunità di apprendimento. L’idea che la conflittualità sia immorale e vada risolta dovrebbe essere pertanto superabile, ma è certo che ad oggi sono proprio gli ambienti educativi che faticano ad allontanarsi dall’antica posizione.

Nonostante le discipline psicosociali da molti anni sostengano che il conflitto fa parte della natura umana e della relazione sociale e che è importante assumersi la responsabilità di educare alla gestione della conflittualità, di fronte al litigio e all’agire conflittuale ciò che emerge è ancora il bisogno di reprimerlo, fermarlo, alla meglio, evitarlo alla stessa stregua della violenza.

“Basta litigare, speriamo non litighiate più, chi litiga è un asino, ecc…” sono, frasi fors’anche ormai retoriche, ma, tuttavia, ancora molto presenti nel fare educativo.

Sul punto, i dati raccolti fanno emergere un quadro chiaro circa il comportamento degli adulti di fronte alla conflittualità. I bambini alla domanda “cosa fanno gli adulti quando litighi con un tuo amico/compagno?” per il 67% raccontano di azioni che intendono risolvere il problema, nell’8,8% dei casi intendono gestirlo e solo il 5,5% intende trasformare la relazione conflittuale. L’adulto interviene “dando un castigo, una punizione; sgridando o dividendo; chiedono di fare pace e dicono di smetterla; picchiano e risolvono il litigio decidendo chi ha colpa”[6].

Seguendo l’idea di Bilotta (2016), circa il potere della morale, potremmo dire che essa sembra prevalere persino sulla psicologia dell’età evolutiva, la quale esprime la necessità che il bambino, nel periodo della latenza (6-11 anni) identifichi alcuni riferimenti importanti extrafamigliari sia fra gli adulti che fra i pari, capaci di sostenere il passaggio dal nido famigliare alla società. In quella fascia d’età emergono in modo chiaro e forte i temi della maestra preferita, del migliore amico. Il bambino, infatti, “matura la competenza di porsi in relazione con gli altri, sviluppando lentamente la capacità di porsi nel punto di vista dell’altro, di collaborare con l’altro, di scegliere gli amici, di elaborare regole fondate sul mutuo consenso, di stabilire rapporti di amicizia” (Camaioni, Di Blasio, 2007: 113).

Eppure, gli adulti sembrano non accettare che il bambino abbia preferenze nella relazione, talvolta, decretando sermoni sul fatto che si è tutti uguali e non è buona cosa avere preferenze fra un compagno e l’altro. Spesso i conflitti fra pari originano proprio dai tentativi di cercare la giusta distanza dall’altro e l’idea che le relazioni in classe dovrebbero essere tutte uguali lede al percorso evolutivo, che sta procedendo verso l’apprendimento delle competenze sociali, ossia verso il saper stare con gli altri, scegliendo in modo sempre più autonomo le proprie relazioni.

È chiaro che la scelta di stare con un compagno e non con l’altro, la decisione di prestare un oggetto ad uno e non all’altro, il desiderio di studiare con l’una e non con l’altra […] creano conflitto in classe, luogo, peraltro, di convivenza forzata.

 

Alla definizione di un atteggiamento di preoccupazione e presa di distanza dal conflitto da parte del mondo educativo sembrano aver concorso diversi fattori: la lettura che si dà all’interazione conflittuale, la confusione fra conflitto e violenza e le norme morali diffuse in tema di pacificazione. La formazione degli insegnanti procede poi verso l’approfondimento specifico circa il conflitto a scuola.

 

  1. Il conflitto a scuola: le modalità per affrontarlo contano più del risultato

 

Così come per ogni oggetto d’indagine, anche il conflitto è bene che sia visto e descritto nei suoi tratti di generalità, ma anche compreso in quelli di specificità. Fino a qui il conflitto è stato descritto come costrutto relazionale, caratterizzato da una sua fenomenologia (materiale formazione I.3), che va da una fase di latenza ad una di decadimento e originato da una sorta di meccanismo a piramide (materiale formazione I.2), che vede alla base bisogni individuali o di gruppo, che definisono interessi i quali, a loro volta, determinano posizioni divergenti.

Ciò che determina la specificità del conflitto sono il contesto in cui si crea, ovvero le relazioni entro le quali esso si definisce.

La scuola, per esempio, è un contesto specifico nel quale più sottosistemi, talvolta divergenti, si confrontano. Si tratta di un contesto obbligato e non scelto, soprattutto per quanto riguarda gli alunni, i quali si trovano a convivere e confrontarsi con persone che non hanno scelto. Come già descritto, fra i 6 e gli 11 anni i bambini sperimentano proprio le prime scelte relazionali, rendendo il terreno ancor più litigioso, fra i 12 e i 15 anni si esercitano nelle scelte e definiscono sempre più la loro autonomia nelle scelte. La scuola, inoltre, ha un compito educativo: si tratta di un’agenzia formale e il conflitto fa parte delle molte dinamiche, che l’istituzione non può trascurare.

Il bambino apprende competenze relazionali, fra le quali, appunto, la gestione della conflittualità, all’interno delle agenzie di socializzazione e la scuola è di certo fra gli agenti che più incidono su tale apprendimento (Garelli, Palmonari, Sciolla, 2006). Sappiamo quanto sia cruciale la scuola nella formazione del sé degli alunni: è in questo contesto che il bambino prima, l’adolescente poi, comincia a sperimentare una realtà sociale esterna alla famiglia nella quale sperimentare la propria capacità di azione, nel darsi alcuni obiettivi ed assumersene la responsabilità, nello sperimentare strategie necessarie alla soluzione dei conflitti (Ardone, 1999). L’insieme di questi aspetti influisce sul senso di autostima percepita, ossia su ciò che un ragazzo crede di saper fare, nonché su quello che teme non sia alla propria portata. Il bambino apprende come si gestisce la conflittualità e costruisce la sua self efficacy (Caprara, 1991), ossia la percezione di saper affrontare e superare gli eventi critici che si presentano nella vita, strettamente connessa alla consapevolezza e alla fiducia nelle proprie competenze relazionali e negoziali.  La consapevolezza da parte del ragazzo di saper utilizzare strategie utili per affrontare la conflittualità e il riconoscimento di tale competenza da parte degli adulti significativi, quali gli insegnanti, incidono in modo determinante sul processo di costruzione dell’identità (Rodriguez-Tomè e Bariaud, 1990). L’esperienza scolastica potrebbe essere paragonata ad una sorta di specchio strutturato e strutturante nel quale l’adolescente impara a vedersi, valutando ciò che sa fare e ciò che non sa fare e costruendo una rappresentazione del proprio futuro (Palmonari, 1995). In altre parole, s’impara in età evolutiva a percepirsi come capaci o non capaci di…: nelle fasi successive della vita vi sono costanti e continui rimodulazioni nelle quali l’adulto può recuperare la propria autostima, ma sempre a partire da quella definizione strutturata e strutturante ricevuta fra la latenza e l’adolescenza.

Sentirsi capaci di gestire in modo costruttivo la conflittualità, significa sentirsi capaci di affrontare una situazione critica e dare ad essa uno sviluppo positivo. Il riconoscimento, da parte degli insegnanti, di tale capacità restituisce all’alunno valore e contribuisce a definire la sua self efficacy.

Non da ultimo, l’insegnante che supporta l’autonomia degli alunni nella definizione delle relazioni litigiose sta accompagnando gli alunni verso il processo di socializzazione normativa, così come descritto in Marchetti (2006). Non da ultimo, affrontare un conflitto significa sperimentare e affinare le proprie capacità negoziali e di ricerca della soluzione, secondo l’uso del problem solving e della ragionevolezza. Cercare soluzioni comuni, implica utilizzare una procedura logica, capace di tenere in considerazione gli aspetti emotivi, che la espongono ad esiti incerti.

Gestire il conflitto con l’altro implica mettersi in gioco sia sul piano della razionalità, sia sul piano emotivo. Molte ricerche (Carugati, Mugny, 1987; Ajello, 1998), infatti, dimostrano che l’interazione sociale favorisce lo sviluppo cognitivo, soprattutto laddove si sperimentano conflitti socio-cognitivi, ossia quando si verifica un disaccordo tra individui in merito ad un problema. Lo squilibrio intersoggettivo che si viene a determinare a causa delle differenti prospettive assunte dai soggetti comporterà un conflitto intraindividuale, il quale, a sua volta, permetterà una nuova strutturazione cognitiva e la conoscenza delle proprie dinamiche emotive (Gilly, 1998).

In sintesi, potremmo dire che ciò che accade durante la dinamica conflittuale ne definisce l’esito. Ma ciò che accade è più importante dell’esito stesso. Il legame può rompersi o può essere rilanciato (definendo l’esito), ma le modalità attraverso le quali è affrontato il conflitto definiscono il senso dell’esito stesso. Il processo attraverso il quale si è trasformato, definisce la possibilità che esso sia vissuto come un’occasione di apprendimento o come un fallimento.

La questione, quindi, si sposta dal ritenere o meno il conflitto come occasione di apprendimento alle modalità adatte a valorizzare tale occasione.

È dimostrato (Luison, 2006) che le modalità attraverso le quali i sistemi sociali affrontano le controversie e i conflitti interpersonali sono radicate nella cultura familiare e comunitaria, più che nella natura dell’uomo; in altre parole potremmo dire che se il conflitto appartiene alla natura umana, la modalità per gestirlo appartiene alla cultura e alla società (Simmel, 1979; Scalvi, 2003).  È dentro il legame con l’altro, che l’individuo costituisce e apprende modelli comportamentali che utilizzano il conflitto come occasione di apprendimento, ossia come occasione per ridefinire nuove regole adatte alla relazione. I litiganti possono decidere assieme che le nuove regole della relazione prevedano la rottura della stessa; è il processo attraverso il quale arrivano a tale risultato che conta. Due persone possono decidere di mantenere le distanze perché non si trovano reciprocamente simpatici. Non è la rottura a costituire problema; se lo hanno deciso assieme e sul punto hanno trovato un accordo, questo avrà fatto del loro conflitto un’occasione di apprendimento.

Certo, utilizzare il conflitto come risorsa significa saper porre il proprio punto di vista, cogliere il punto di vista dell’altro e trovare, in modo creativo, possibilità di risposta che soddisfino entrambi. In sostanza, significa educare alla tolleranza, così come lo definiva Ortega (in Bilotta: 43), ossia “la capacità di assumere infinite prospettive fra le quali l’unica falsa è quella che pretende di essere l’unica vera”. Il che significa imparare a distinguere la persona dal suo pensiero, possibilità già ben descritta dal Rosmini (1979: 99), secondo l’idea che “per tolleranza s’intende rispettare le opinioni altrui e diffidare delle proprie entro i confini della prudenza […], s’intende che va esercitata verso le persone e non verso il pensiero”. Non vi è, dunque, la rinuncia al proprio pensiero e neppure la prevaricazione di quest’ultimo sull’altro, bensì la disponibilità ad ascoltare l’altro e diffidare delle proprie convinzioni, secondo un atteggiamento che non abolisce le differenze, ma utilizza la curiosità nei confronti dell’altro e delle sue idee.

Abbiamo già detto (§.1), che dal punto di vista della teoria della mente solo un pensiero evoluto può essere disponibile a tale atteggiamento nei confronti del conflitto e dell’altro; ad esso, infatti, servono la capacità di astrarre e di fare un ragionamento ipotetico-deduttivo e  la possibilità di uscire dalla logica dicotomica del bene/male attraverso cui leggere la realtà. Tuttavia, se chiediamo ai bambini di dire qualcosa sul litigio, essi si esprimono in questo modo:

 

 “I grandi pensano che litigare non va bene, invece, può insegnarti la vita” (Emma, 9 anni)

“Se io non litigo, non so mai cosa pensa lui e cosa penso io” (Giulio, 10 anni)

“Litigare per me è bello perché mi sento forte e coraggioso” (Alex, 10 anni)

“Io quando litigo sono triste perché mi sgridano” (Myriam, 9 anni)

“È bello litigare quando poi si torna a giocare” (Lia, 8 anni)

………

 

I bambini sentono la necessità di entrare in conflitto con l’altro per sapere cosa pensa e capire il confine con l’altro; descrivono il conflitto come un evento naturale e gli interventi degli adulti come comportamenti coercitivi, che impongono soluzioni, giudicano e decidono al posto loro. Alla domanda: “Cosa vorresti che facessero gli adulti quando litighi con i tuoi pari”, le risposte riguardano, infatti, da un lato, il desiderio che gli adulti non li sgridino o li picchino e, d’altro canto, la possibilità di potersela cavare da soli.

“Vorrei che non mi sgridassero” (Lia, 9a)

“Mi piacerebbe che ci lasciassero fare da soli, invece la mamma interviene sempre e dà sempre la colpa a me” (Anna, 9°)

“Che non mi picchiassero anche perché le prendo già da mio fratello” (Luca, 8a)

“Non voglio che mi facciano l’interrogatorio” (Carlo, 10a)

 

 

La mediazione fra pari propone agli alunni di prendersi cura della loro conflittualità attraverso un percorso che valorizza il processo di lavoro (come stiamo affrontando il conflitto) più dell’esito (cosa abbiamo deciso di fare). Il mediatore non giudica l’accordo preso dai litiganti perché è interessato al modo attraverso il quale si arriva all’accordo stesso. È nel modo che abbiamo di affrontare il conflitto, infatti, che troviamo il senso e il significato di ciò che è accaduto e che accadrà.

 

 

  1. Il progetto di mediazione scolastica fra pari

 

Il progetto prende spunto da ciò che J.P. Bonafè Schmitt (1999; 2000), descrive nei suoi due testi relativi alla mediazione scolastica fra pari realizzati nelle scuole Primarie e Secondarie di primo grado. Come già accennato, esso prevede una prima fase di sensibilizzazione dei genitori e formazione degli insegnanti e una seconda fase d’intervento nelle classi secondo l’idea che la mediazione scolastica possa diventare un modus operandi dell’intera comunità scolastica, oltrepassando l’idea di un progetto che inizia e finisce nel momento in cui entrano ed escono i formatori. La proposta formativa è rivolta agli istituti, che intendono acquisire una modalità positiva e autonoma di gestire il conflitto all’interno della loro proposta formativa. Si tratta sempre di una sfida, che l’Istituto accoglie con spirito d’iniziativa, ormai consapevole degli ostacoli posti dalle modalità tradizionale di affrontare il conflitto di cui si è trattato nei primi paragrafi.

 

3.a La peer mediation

 

L’intervento di mediazione si specifica in un processo attraverso il quale un soggetto, esterno rispetto alla situazione conflittuale, crea un contesto che facilita la comunicazione fra le persone, permettendo loro di gestire o trasformare positivamente la condizione di rottura nella quale si trovano, alla ricerca di un accordo che soddisfi i soggetti coinvolti. In particolare, la mediazione prevede il coinvolgimento dei pari, secondo le note teorie che descrivono il valore e l’efficacia della peer education[7].

Gli obiettivi specifici riguardano:

  • Sensibilizzazione del gruppo docente allargato, dei genitori e diffusione di una cultura della mediazione all’interno del contesto scolastico;
  • Formazione di un gruppo di insegnanti;
  • Sensibilizzazione dei gruppi classe rispetto alla tematica del conflitto fra pari e individuazione negli stessi gruppi degli studenti mediatori;
  • Formazione dei mediatori;
  • Accompagnamento e monitoraggio dell’attività di mediazione scolastica.

 

Le azioni si suddividono in:

Sensibilizzazione del collegio docenti e dei genitori, formazione di un gruppo insegnanti e sensibilizzazione dei genitori.

I destinatari sono i genitori e gli insegnanti. La metodologia utilizzata vede una conferenza per il collegio docenti in modo da far conoscere il progetto, sensibilizzare sul tema e far emergere l’interesse alla formazione specifica. Un percorso di formazione sul tema del conflitto come risorsa e sulla mediazione scolastica. Un incontro con i genitori per conoscere il progetto e sensibilizzare al tema.

Sensibilizzazione delle classi coinvolte e individuazione degli studenti mediatori, formazione mediatori, start-up spazio di mediazione.

La metodologia prevede la realizzazione di alcuni incontri di sensibilizzazione sul tema del conflitto e della mediazione scolastica fra pari in ogni classe coinvolta e l’individuazione in ogni classe di almeno due mediatori. Gli alunni delle classi vengono coinvolti in due incontri di due ore ciascuno in un percorso di sensibilizzazione nel quale sono affrontate le tematiche della convivenza in classe, della conflittualità e delle diverse modalità che i ragazzi conoscono per gestire il conflitto. In questa sede viene somministrato un breve questionario e si chiede ai ragazzi di disegnare un recente conflitto. I formatori, in questi primi incontri, hanno l’obiettivo di accompagnare al riconoscimento delle opportunità offerte dal conflitto quando gestito in modo positivo. Dall’osservazione accurata, fors’anche etnografica, di questa primissima fase del progetto emergono una grande curiosità e interesse da parte dei bambini/ragazzi, anche laddove e quando si chiede loro di associare al conflitto alcune emozioni provate. Il lavoro si orienta poi verso l’individuazione degli alunni mediatori, protagonisti poi del percorso di formazione. Ogni alunno ha la possibilità di candidarsi e ogni alunno può scegliere, in forma anonima, due mediatori della classe. I formatori eseguono lo spoglio e lo tengono chiaramente in considerazione, ma gli alunni sanno che la scelta dei mediatori dipende anche dall’esigenza di costituire un gruppo di mediatori eterogeneo per età e genere.

Formazione dei mediatori

L’azione successiva vede la messa in campo del percorso di formazione rivolto agli alunni mediatori. Il percorso è finalizzato a trasmettere agli alunni le competenze del mediatore in ambito scolastico, attraverso incontri nei quali si condividono i principi e le procedure del processo di mediazione. Gli alunni sono accompagnati nella sperimentazione, attraverso simulazioni, della pratica, seguendo dapprima in modo quasi pedissequo e poi in forma libera i passaggi previsti per accompagnare i compagni che scelgono di iscriversi allo spazio di mediazione verso la riorganizzazione del loro legame e la gestione del loro conflitto. Ai mediatori si propone un percorso per affrontare il litigio che li vede lavorare sempre in coppia, secondo una turnazione stabilita dagli insegnanti nota e visibile all’intero plesso scolastico.

Start up del servizio di mediazione

Terminato il percorso di formazione i mediatori iniziano il loro lavoro. Se il progetto è presente dall’anno precedente, i mediatori junior fanno un periodo di osservazione dei senior per poi sostituirli; se, invece, si tratta del primo anno, i mediatori iniziano da soli comunque sempre alla presenza di una sorveglianza esterna o da parte dei formatori o di un insegnante.

Lo spazio di mediazione diventa luogo della scuola, un tempo della scuola e non per la scuola. Il fatto che tutto avvenga durante l’orario scolastico e che gli alunni possano uscire dalla classe secondo tempi stabiliti, ma in forma libera, durante le lezioni per occuparsi del litigio con i compagni, permette alla scuola di dare un messaggio chiaro agli alunni relativamente all’importanza che essi imparino a gestire autonomamente la loro litigiosità, non solo attraverso atteggiamenti di valorizzazione verso il conflitto, anziché di accusa, ma, soprattutto, fornendo uno strumento che dichiara apertamente l’idea che il conflitto sia parte della relazione e che vi sia la necessità di imparare a gestirlo in modo positivo.

Il progetto lavora, infatti, come già descritto nel §2.1, sia sul fronte del contenuto proposto, sia attraverso la dinamica di processo, permettendo alla mediazione scolastica di passare dalla categoria della mediazione interpersonale, per alcuni finalizzata all’educazione e al controllo (Bramanti, 2006), alla mediazione sociale, diretta alla cura dei legami sociali. La mediazione scolastica fra pari non è, infatti, uno strumento di gestione del disordine, che infastidisce e intralcia, oppure una modalità per gli adulti di abdicare dal loro ruolo. Essa contiene la possibilità di “ri-vitalizzare i legami fra le persone che abitano uno stesso spazio, di rinnovare i legami fragili e di ricucire quelli lacerati”, superando quell’idea di una pacificazione platonica, laddove è buono solo l’ambiente dove tutti sono in completa armonia con tutti.

 

Dott.ssa Ilaria Marchetti

 

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[1] Nel caso dei progetti di mediazione scolastica, l’Istituto di mediazione opera, così come ben descritto in D. Bramanti (2005), per via promozionale, ossia si appoggia a finanziamenti erogati sulla base di una scelta progettuale annuale o pluriannuale del singolo istituto comprensivo. Tuttavia, gli insegnanti sono formati affinché possano diventare loro stessi formatori degli alunni mediatori, cosicché il progetto possa diventare un servizio autonomo rispetto ai finanziamenti.

[2] I dati si riferiscono ad una ricerca condotta sui soggetti (insegnanti e alunni) coinvolti nel progetto di mediazione scolastica dell’I.C. di Salò (Brescia), la quale attraverso la somministrazione di questionari a risposte aperte e chiuse rileva ciò che gli insegnanti pensano del confitto e l’autopercezione circa la loro capacità di gestirlo. Il campione è costituito da 35 insegnanti e 234 alunni di età compresa fra i 9 e gli 11 anni.

[3] Per approfondire la questione è utile far riferimento alla distinzione far interazione e relazione, tipica dei modelli di analisi Simbolico-relazionali (si vedano gli scritti di V. Cigoli e E. Scabini; P.  Donati e G. Rossi)

[4] Per una chiara distinzione ci si riferisca a G. Tamanza in M.L. Gennari, M. Mombelli, L. Pappalardo, G. Tamanza, L. Tommellato, La consulenza tecnica familiare nei procedimenti di separazione e divorzio, Franco Angeli, Milano, 2014.

[5] Con Menesini (2000), sappiamo, inoltre, che se all’intenzionalità si aggiunge la ripetitività e l’azione è svolta attraverso il gruppo, siamo di fronte al bullismo, una forma di violenza del gruppo nei confronti di una vittima con impari forza.

[6] La domanda del questionario recitava: Cosa fanno gli adulti quando litighi con un tuo amico/compagno? (domanda aperta) Le risposte sono state chiuse secondo tre categorie di azione/intervento dell’adulto: risolve/gestisce/trasforma.

[7] La Peer Education (letteralmente “Educazione tra Pari”) identifica una strategia educativa volta ad attivare un processo spontaneo di passaggio di conoscenze, di emozioni e di esperienze da parte di alcuni membri di un gruppo ad altri membri di pari status; un intervento che mette in moto un processo di comunicazione globale, caratterizzato da un’esperienza profonda ed intensa e da un forte atteggiamento di ricerca di autenticità e di sintonia tra i soggetti coinvolti. Questa pratica va oltre la consueta pratica educativa e diviene una vera e propria occasione per il singolo soggetto, il gruppo dei pari o la classe scolastica, per discutere liberamente e sviluppare momenti transferali intensi. Per chi volesse approfondire, si consiglia il testo di G. Boda, Life skill e peer education: strategie per l’efficacia personale e collettiva, Milano, La Nuova Italia, 2001. Per un chiarimento del concetto e della pratica, riportiamo la definizione di Peer Education del manuale Training for Trainers, Peer Education pubblicato dal Joint Interagency Group on Young People’s Health Development and Protection in Europe and Central Asia (IAG): “[…] l’educazione fra pari è il processo grazie al quale dei giovani, istruiti e motivati, intraprendono lungo un periodo di tempo attività educative, informali o organizzate, con i loro pari (i propri simili per età, background e interessi), al fine di sviluppare il loro sapere, modi di fare, credenze e abilità e per renderli responsabili e proteggere la loro propria salute.”